Dott.ssa Alessia Sapei – Osteopata Fisioterapista a Torino

COCCIGODINIA, “sei proprio tu quel pezzettin del mio codin (La danza del serpente)”

Quando parliamo di dolore al coccige, ci stiamo riferendo a un dolore al fondo della schiena o spesso, come riferito dai pazienti, “al codino”. La definizione corretta è coccigodinia. Di solito è una condizione clinica secondaria ad altre problematiche, che possono rientrare negli ambiti muscoloscheletrico, viscerale, infettivo, fino ad arrivare a problematiche maligne.
Il coccige è un osso impari residuo della coda a suo tempo presente nei nostri antenati ed è composto generalmente da 4 vertebre, configurandosi come l’ultimo tratto della colonna vertebrale inferiormente al sacro; il coccige partecipa proprio a questa sola articolazione: l’articolazione sacro-coccigea. In ambito prettamente anatomico permette l’inserzione del filum terminale, struttura che ancora il midollo spinale alla colonna, e l’inserzione di muscoli e legamenti (es: pavimento pelvico). In ambito prettamente osteopatico è considerato un osso bilanciere, in grado di adattarsi e compensare le curve della colonna, bilanciare le tensioni muscolari del bacino, creare un continuum tra le meningi craniche e il sacro (terapia craniosacrale), dare continuità fasciale anteroposteriore (linea alba, pube, sacro, colonna), ecc.
Tornando alla coccigodinia, essa può essere acuta o cronica, in quest’ultimo caso rappresenta una problematica con più concause e spesso di difficile risoluzione. La presentazione del sintomo può essere differente; comunemente il dolore è localizzato sull’osso e il paziente se ne accorge maggiormente in posizione seduta, ai cambi di postura, durante le stazioni erette prolungate; può essere talvolta solo presente alla palpazione diretta del coccige, durante l’evacuazione e/o durante i rapporti sessuali.
È importante comunque valutare bene la distinzione rispetto a dolori localizzati più a livello sacrale o lombari bassi. Talvolta il dolore può essere riferito alla zona coccigea ma originare in altre parti del corpo (vedi problematica discale, pavimento pelvico, piriforme, eccetera). Per capire se si tratti davvero di coccigodinia e valutare il corretto tipo di intervento bisogna analizzare bene anche le possibili cause scatenanti; la causa più comune è di tipo traumatico, dalla semplice caduta fino a vere proprie fratture o lussazioni di coccige (che necessitano ovviamente di un intervento ortopedico specialistico). Si devono comunque valutare ed escludere problematiche di tipo infiammatorio/infettivo, gastrointestinali, uro genitali, neurologiche; senza traumi diretti e valutando anche i sintomi associati, sicuramente è utile un controllo proctologico al fine di escludere cause di natura puramente medico specialistica.
In assenza di patologie specifiche, il trattamento può essere farmacologico per ridurre l’infiammazione o le tensioni, in associazione a terapia manuale (osteopata) e riabilitativa (importante la riabilitazione del pavimento pelvico in questi casi). Spesso l’associazione di fisioterapia e osteopatia in aggiunta ad esercizi da eseguire in autonomia, porta ottimi risultati e soprattutto previene le recidive.
Nei casi refrattari ai suddetti trattamenti, esistono centri specializzati per il dolore cronico, dove si possono valutare altri tipi di interventi, come ad esempio infiltrazioni di anestetici o corticosteroidi, blocchi nervosi, manipolazioni sotto anestesia, stimolazione elettrica midollare, eccetera.
Fondamentale ricordarsi sempre che il corpo è un continuum di strutture; bisogna approcciarlo nella sua globalità e non sul singolo “pezzettino”.

Sindrome dello Stretto Toracico (SST)

Con Sindrome dello Stretto Toracico (o Sindrome degli scaleni) si intende quell’insieme di sintomi e disturbi dovuti alla compressione dei fasci nervosi e/o vascolari che, partendo dal collo per andare verso l’arto superiore, si incanalano nello spazio fisiologico compreso tra la clavicola, la prima costa e i muscoli scaleni, succlavio e piccolo pettorale, spazio denominato appunto Stretto Toracico.

A seconda di dove avviene la compressione e di quali strutture interessa, la SST può provocare sintomi neurologici oppure circolatori. Se ad essere compresso è il fascio nervoso (forma più diffusa, circa il 95%) si rileverà un intorpidimento e formicolio al braccio o alle dita poste all’estremità di quest’ultimo; dolore o fastidio al collo, alla spalla o alla mano la quale avrà una presa debole. Se invece la compressione riguarda la parte vascolare (venosa o arteriosa) i sintomi saranno legati al rallentamento o parziale stasi del flusso sanguigno con pallore delle dita e della mano o pelle cianotica, dolore e/o gonfiore al braccio, sensazione di gelo alle dita alla mano e al braccio, debolezza del braccio o del collo anche dopo un’attività non intensa e zona pulsante vicino alla clavicola.
La SST viene spesso confusa con la cervico-brachialgia a causa di sintomi comuni che tuttavia originano da un diverso problema meccanico come ad esempio un’ernia o protrusione cervicale.

Le cause principali della SST, al netto di anomalie anatomiche congenite come la presenza di una costa accessoria cervicale o di un fascio di scaleni accessorio, riguardano per lo più aspetti di tipo meccanico e funzionale.

Le alterazioni posturali sono molto frequenti. La testa proiettata in avanti e le spalle chiuse portano ad un accorciamento associato di alcuni muscoli (scaleni, elevatore della scapola, piccolo pettorale) e all’abbassamento della clavicola, con conseguente restringimento degli spazi dove scorrono i vasi sanguigni e i nervi.

Anche una respirazione prevalentemente “alta” (che vede il coinvolgimento principale dei muscoli superiori del tronco) può portare alla SST. Infatti, essendo gli scaleni ed il piccolo pettorale, muscoli accessori della respirazione, essi possono andare incontro a iper-sollecitazione e ad una ipertrofia che letteralmente “strizza” i fasci nervosi e vascolari dello Stretto Toracico.

I traumi da caduta e da incidente stradale con fratture di clavicola, lussazioni di spalla e colpi di frusta possono portare ad una riduzione dell’apertura toracica superiore; mentre lo stress posturale derivante da carichi pesanti, può portare alla pressione e trazione del plesso nervoso brachiale. Infine anche le attività ripetitive lavorative ( uso prolungato del computer, lavorare in catena di montaggio, il sollevamento ripetuto di oggetti pesanti sopra la testa) o sportive (come ad esempio il baseball o il nuoto) possono comportare, a livello dello Stretto Toracico, un’usura dei tessuti, fino all’insorgenza di vere e proprie patologie.

Poichè, come abbiamo detto, spesso la causa è di natura posturale il primo approccio è di tipo conservativo riabilitativo ed il trattamento risulta spesso sufficiente a controllare le forme di grado moderato. Il trattamento chirurgico va riservato ai casi di dolore persistente, di perdita significativa di forza, grave sintomatologia arteriosa o danni nervosi.

Il trattamento osteopatico, unito a mirati esercizi fisioterapici, è di sicuro il sistema elettivo per valutare e trattare la Sindrome dello Stretto Toracico. Gli obiettivi principali saranno tesi ad allentare la compressione biomeccanica sui nervi e sui vasi sanguigni nella zona interessata, migliorare la flessibilità muscolare e la mobilità delle articolazioni e del tessuto connettivo, controllare il dolore e gli altri sintomi migliorando la qualità della vita del paziente. In seguito potranno essere consigliati esercizi globali di rinforzo della muscolatura addominale, di rieducazione respiratoria improntata alla respirazione addominale-diaframmatica e al rilassamento della parte alta del torace ed infine esercizi specifici dell’arto superiore fino al raggiungimento e il mantenimento di una postura più fisiologica. Verranno raccomandati, nelle normali attività quotidiane, alcuni accorgimenti, come l’uso di braccioli o cuscini per alleggerire la cintura scapolare quando si lavora al computer e alcune posizione antalgiche per dormire in posizione laterale.

Vertigini da cervicale: risolvere si può!

Le vertigini possono essere definite come una sensazione di movimento, rotatorio, oscillatorio o di sbandamento quando in realtà si è fermi. A seconda del sistema di riferimento cui ci si riferisce, vengono definite vertigini soggettive se la sensazione di sbandamento riguarda il soggetto che riferisce mancanza di equilibrio oppure vertigini oggettive quando sembra che sia l’ambiente intorno a muoversi mentre il soggetto è fermo.
Questa sensazione può essere intermittente e durare da qualche secondo a delle ore o addirittura giorni, a volte peggiorando nel momento in cui si cambia posizione, o durante minimi movimenti della testa come tossire o starnutire. Le vertigini possono essere associate a nausea o vomito, a mal di testa o sensibilità a luce e rumori, a sdoppiamento della vista, problemi a parlare o a deglutire, aumento della frequenza cardiaca, fiato corto, debolezza e sudori.

Visti i numerosi sintomi associati non è sempre facile identificare le vere cause delle vertigini ecco perché è fondamentale innanzitutto avere una corretta diagnosi per poter procedere poi ad un trattamento adeguato e ad una cura. Infatti fra le cause scatenanti le vertigini sono inclusi problemi più o meno gravi che richiedono un trattamento repentino ( traumi alla testa come il colpo di frusta, ictus, attacchi ischemici transitori, emorragie cerebrali…) oppure che possono essere trattate senza urgenza dopo la diagnosi effettuata dal medico competente otorinolaringoiatra (problemi all’orecchio interno come infiammazioni o accumuli di calcio, labirintite, sindrome di Ménière, neurite vestibolare, emicrania, sclerosi multipla…). Quando la causa non è afferente a nessuna delle problematiche sopraesposte, in particolare nel caso delle vertigini soggettive, il problema scatenante è da ricercarsi nell’infiammazione della zona cervicale, ecco perchè questo tipo di vertigini sono anche dette “vertigini propriocettive” o “vertigine cervicogeniche”.
Tra le cause principali di vertigini da cervicale possono esserci traumi cranici e cervicali, torcicollo, cervicalgie, artrosi cervicale, ernie dei dischi intervertebrali situati all’altezza cervicale. Esse si intensificano con i movimenti del collo o con l’aumentare della cervicalgia e si riducono contestualmente all’alleviarsi del dolore, ad esempio in seguito all’assunzione di farmaci analgesici al rilassamento muscolare.
Anche una cattiva postura può contribuire alla vertigine cervicale; infatti i muscoli e le articolazioni del collo contengono infatti recettori deputati a trasmettere informazioni sull’orientamento della testa al cervello, agli occhi e all’orecchio interno. Se in questo sistema qualcosa non funziona correttamente, il cervello riceve dati inesatti creando un corto circuito il cui prodotto sono proprio le vertigini. Così ad esempio quando a causa di una prolungata inclinazione del collo verso il basso per guardare dispositivi elettronici (Sindrome da Smartphone), viene esercitata una pressione importante sulle strutture anatomiche del collo anche i vasi arteriosi del collo possono essere influenzati e causare vertigini, mal di testa, dolore al collo, alle braccia come nel caso della cervico-brachialgia.
In questi casi l’intervento dell’osteopata / fisioterapista sono volti a diminuire lo stato di tensione, l’infiammazione e la contrattura dei muscoli cervicali responsabili della sensazione di vertigini e sbandamenti, con esercizi di allungamento e stretching ripristinando le normali tensioni muscolari dei muscoli posteriori, laterali e anteriori del collo, e l’assetto posturale della zona cervicale in toto. Oltre al rachide cervicale, verranno esaminate e trattate anche altre aree del corpo ad esso correlate, come ad esempio: cranio, bocca, bacino, costato, schiena e a volte anche visceri riequilibrando le tensioni alla base del collo, alla base del cranio, le tensioni membranose del cranio e le disfunzioni fasciali, che possono interferire con la normale fisiologia dei neurorecettori dell’equilibrio.

La Fascite Plantare: ritrovare l’equilibrio posturale per risolverla

Per fascite plantare si intende un insieme di sintomi, a prevalenza dolorosa, che insorge in maniera graduale in base alla gravità del problema coinvolgendo la fascia plantare: essa rappresenta la causa più diffusa del dolore alla base del calcagno, alla pianta ed all’arco del piede.

Il dolore può comparire soprattutto al mattino. Infatti la fascia plantare, essendo stata in una posizione accorciata per un lungo periodo di tempo durante il sonno, al momento del risveglio a causa dei movimenti di allungamento del piede rimane contratta per l’infiammazione, provocando dolore. Il dolore insorge inoltre in diverse occasioni come ad esempio durante l’attività sportiva, oppure quando si sta troppo in piedi o si cammina molto con una sensazione di strappo o lacerazione e bruciore.

Essendo un’infiammazione che colpisce la banda fibrosa che dal tallone attraversa tutta la pianta del piede, fino alla base delle dita, la fascite plantare non andrebbe mai sottovalutata o trascurata, in quanto raramente regredisce senza trattamento e a lungo termine può causare problematiche invalidanti, soprattutto per chi pratica sport agonistico.

Le cause scatenanti della fascite plantare possono essere molteplici e anche combinate tra loro: esercizi fisici errati o allenamenti troppo intensi, utilizzo di calzature inadeguate, e soprattutto problematiche di sovraccarico strutturale o posturale.

La fascia plantare ha il compito molto importante di sostenere il piede mantenendo l’arco del piede in posizione curva, fungendo inoltre da ammortizzatore naturale, tramite un cuscinetto adiposo che la ricopre, assorbendo gli shock che si generano durante le normali attività quotidiane. Tuttavia, a causa di dismetrie degli arti o di utilizzo scorretto dei vari distretti della muscolatura coinvolti nel gesto atletico, il peso del corpo viene trasmesso al piede in maniera errata sollecitando oltremodo la fascia plantare e causandone l’infiammazione. Non a caso questa patologia colpisce per la maggior parte chi pratica sport frequentemente o in maniera agonistica come i corridori, i saltatori e i calciatori.

Il trattamento osteopatico/fisioterapico fornisce un’ottima soluzione per diminuire la flogosi, lenire il dolore e correggere le cause da cui si è originata la fascite plantare. Nella fase acuta il professionista consiglierà applicazioni di ghiaccio, stretching e riposo. Successivamente l’intervento sarà volto a ridurre la tensione nella fascia plantare, gestendo la causa dell’infiammazione per ridare elasticità ai tessuti con sedute di Tecar per drenare un eventuale edema e stimolare il tessuto connettivo della giunzione mio-tendinea e del legamento arcuato e con manipolazioni fasciali. Non fosse sufficiente si può optare per le onde d’urto.

L’osteopata andrà inoltre alla ricerca delle dismetrie posturali che hanno causato la fascite plantare. Il lavoro si concentrerà sul rafforzare i muscoli del piede che vengono messi in stress (tibiale posteriore e peroneo lungo); correggere la postura e riequilibrare la meccanica del piede liberando le tensioni che portano l’articolazione sottoastragalica a lussarsi anteriormente, intervenendo inoltre sulla meccanica dell’arto inferiore togliendo tensione dal polpaccio, mobilizzando l’articolazione del piede, sbloccando ginocchio e anca, andando ad agire sul bacino e a livello del passaggio dorsolombare, togliendo tensioni che possono sbilanciare anteriormente il baricentro creando un alterato carico sul piede.

Oltre al lavoro dell’operatore o del tecnico, poiché è importante cercare di dare “durata” alla modifica che apportiamo al piede attraverso degli esercizi di mantenimento. il paziente può eseguire alcuni esercizi per rilassare la zona e quindi effettuare un auto-trattamento, esercitando con una pallina da tennis una lieve compressione e massaggiando la pianta del piede e l’interno della volta plantare.

In altri casi, quando il piede è molto compromesso è necessario il supporto di un plantare che aiuti il piede a mantenere i risultati ottenuti con il lavoro osteopatico.

Sarà quindi utile un lavoro interdisciplinare con la figura di un podologo/posturologo in quanto la fisioterapia ed i plantari da soli non possono guarire la fascite plantare mentre la correzione della problematica posturale, che è alla base della fascite plantare, renderà meno probabile il ripresentarsi della problematica.

Ernia e Protrusione discale, differenze

L’ernia del disco, nota anche come ernia del nucleo polposo o ernia del disco intervertebrale, è una condizione che colpisce la colonna vertebrale, in particolare i dischi intervertebrali. I dischi intervertebrali sono strutture a forma di cuscinetto che si trovano tra le vertebre e agiscono come ammortizzatori per la colonna vertebrale. Un’ernia del disco si verifica quando il nucleo polposo, una sostanza gelatinosa che si trova all’interno del disco, fuoriesce attraverso un punto debole o un’area danneggiata nella parete esterna del disco, chiamata anello fibroso. Questo può essere causato da un trauma, come un movimento brusco o una lesione alla schiena, o da un deterioramento graduale del disco nel tempo.

La protrusione discale si verifica quando il nucleo polposo sporge leggermente attraverso un punto debole o un’area danneggiata nell’anello fibroso. A differenza di un’ernia del disco, in cui il nucleo polposo fuoriesce completamente attraverso l’anello fibroso, nella protrusione discale il nucleo polposo sporge solo parzialmente.

Quando il nucleo polposo si sporge attraverso l’anello fibroso, può mettere pressione sulle radici nervose circostanti o sul midollo spinale, causando sintomi dolorosi e altre problematiche. I sintomi comuni di un’ernia del disco possono includere dolore alla schiena o al collo, dolore irradiato agli arti superiori o inferiori (a seconda della posizione dell’ernia), intorpidimento, formicolio, debolezza muscolare e difficoltà di movimento. La protrusione discale di solito provoca sintomi meno intensi e può persino essere asintomatica.

La diagnosi di un’ernia del disco o di una protrusione può richiedere una combinazione di esami clinici, come l’esame fisico e la valutazione dei sintomi del paziente, insieme a test diagnostici come la risonanza magnetica (RM) o la tomografia computerizzata (TC), che possono fornire immagini dettagliate della colonna vertebrale e dei dischi. Queste indagini vengono prescritte di norma dallo specialista ortopedico o fisiatra.

Il trattamento per un’ernia del disco dipende dalla gravità dei sintomi e può includere opzioni conservative come riposo, farmaci per il dolore, terapia fisica, infiltrazioni di corticosteroidi o terapia manuale. In casi più gravi o se i sintomi persistono, può essere necessario un intervento chirurgico per rimuovere o riparare l’ernia del disco.

Il trattamento per la protrusione discale dipende dalla gravità dei sintomi e può includere opzioni conservative come riposo, farmaci per il dolore, terapia fisica, terapia manuale e esercizi di stretching e rafforzamento muscolare. In alcuni casi, può essere necessario ricorrere a interventi più invasivi, come infiltrazioni di corticosteroidi o, nei casi più gravi, chirurgia per rimuovere o riparare la protrusione discale.

Lombalgia e muscolo Quadrato dei Lombi

Il “mal di schiena”, più propriamente definito lombalgia, oltre ad essere tra le patologie diffuse in tutto il mondo, rappresenta anche la più frequente malattia dell’uomo dopo il comune raffreddore. Basti pensare che oltre il 70% della popolazione mondiale è destinata a presentare almeno un episodio di lombalgia nel corso della vita.
Ma non tutti i mal di schiena sono uguali!!! A partire dalla causa, dalla localizzazione, dalla sintomatologia per arrivare alla guarigione, la lombalgia presenta approcci di cura molto differenti ed è per questo che risulta fondamentale individuare la causa primaria scatenante e, quando possibile, risolverla.

E’ quindi fondamentale eseguire un’attenta anamnesi del quadro del paziente ed analizzare gli esami strumentali come la Risonanza Magnetica (RMN) per capire il motivo esatto che provoca algia in modo da poter distinguere una discopatia a livello lombare da una semplice contrattura o Trigger Point (punti muscolari iperdolenti): in entrambi i casi infatti il muscolo in questione risulterà indolenzito e dolente ma per cause completamente differenti.

Per capire la sintomatologia di una problematica in cui risulti coinvolto il Quadrato dei Lombi (QL) è necessario conoscere localizzazione e anatomia del muscolo oltre che le sue funzioni, al fine di riconoscere eventuali posture o movimenti sbagliati come causa del dolore.
Il QL si trova nella parete addominale posteriore, e simmetricamente a destra e sinistra, origina dalla cresta iliaca inserendosi sul margine inferiore della 12° costa, andando a contattare anche i processi trasversi delle vertebre lombari L1, L2, L3 ed L4. Esso è formato da due strati muscolari separati tra loro in maniera incompleta ed è rivestito anteriormente da una fascia che lo separa dal muscolo grande psoas, dai reni e dal colon ascendente e discendente.
La funzione del QL è molto importante nella stabilizzazione del bacino insieme ai suoi muscoli antagonisti (ileopsoas, retto addominale, obliquo interno ed esterno nella flessione dorsale) e nell’estensione del tratto lombare; entra in gioco contraendosi, durante il sollevamento di carichi pesanti o durante il movimento delle anche e può anche essere coinvolto nella rotazione del tronco. Infine, grazie alla sua inserzione con le coste, è coinvolto nell’atto respiratorio in particolare nelle espirazioni durante la tosse o gli sternuti.

È adesso più semplice capire perché tra i sintomi maggiormente caratteristici di una problematica al QL si riconosce la lombalgia in stazione eretta o durante l’azione di girarsi nel letto o durante la deambulazione. Un movimento di flessione abbinato alla torsione, come quando prendiamo e spostiamo un peso che si trova di fianco a noi, può attivare Punti Trigger ed a seconda di quali di essi siano coinvolti, il dolore può essere proiettato verso la cresta iliaca e al grande trocantere del femore, fino all’inguine o al quadrato inferiore dell’addome (punti trigger superficiali), o ancora verso la regione glutea vicino all’articolazione sacro-iliaca, oppure verso la regione infero esterna del gluteo (punti trigger più profondi). Alcuni movimenti eseguiti velocemente con la muscolatura ancora “fredda” e non pronta al gesto, oppure l’innalzamento di carichi eccessivi possono invece provocare lesioni muscolari come le “contratture” o gli “strappi muscolari” che, a seconda della loro gravità o grado di lesione, devono essere trattati dal fisioterapista o dalla figura professionale che vi seguirà.

In base alla causa scatenante del dolore al QL il lavoro impostato sarà differente:

  • in caso di Punti Trigger risulterà molto efficace il trattamento manuale basato sul massaggio miofasciale e sullo scarico dei punti stessi in cui si accumula maggior tensione; a seguire, una volta decontratta la muscolatura, il paziente sarà invitato ad eseguire in maniera costante pochi, ma specifici esercizi di stretching.
  • in caso di lesioni muscolari invece, è molto importante il riposo e l’esecuzione del protocollo P.R.I.C.E (protection, rest, ice, compression, elevation). Questo comporta che, durante la fase acuta il muscolo infortunato sia protetto da carichi eccessivi che potrebbero compromettere o rallentare il processo di guarigione. Il ghiaccio, o la crioterapia in genere, viene utilizzato per il suo effetto a livello vascolare e di riduzione del dolore che incide nel miglioramento a breve termine della sintomatologia del paziente. La compressione, attuata tramite bendaggi, limita la diffusione dell’edema dovuto al travaso di liquidi dai vasi lesi all’interno del sito della lesione. Il sollevamento dell’area lesa, invece, riduce la pressione locale e il sanguinamento, favorendo il drenaggio dell’essudato infiammatorio attraverso il sistema linfatico e riducendo di conseguenza l’edema e le relative complicanze. In questa e nel resto delle fasi che compongono la riabilitazione della lesione muscolare, la terapia manuale, il linfodrenaggio e il tape compressivo/funzionali, oltre che la Tecarterapia, possono risultare efficaci nel migliorare le condizioni del paziente e ottimizzare gli effetti della riabilitazione.

La sindrome del piriforme alias “sciatica mozza”

Come può un un piccolo muscolo di forma triangolare che si trova nella parte profonda dei glutei simulare un dolore così intenso e simile alla sciatica?
Un dolore fisso cronico, tormentoso, pungente, con formicolii o parestesie che iniziano a livello dei glutei e si estendono lungo il decorso del nervo sciatico, fino a tutta la parte posteriore della coscia e della gamba e talvolta fino al piede. Il dolore peggiora quando il piriforme è schiacciato contro il nervo sciatico, come quando si corre, ci si siede sul wc o sul sedile stretto di una bicicletta o in macchina, ecco perché talvolta questa problematica è anche detta “sindrome del portafoglio” tipica dei camionisti.

La funzione del muscolo piriforme è quella di ruotare esternamente il femore e abdurlo, cioè allontanarlo dall’asse del corpo oltre che stabilizzare l’articolazione dell’anca. Può capitare che mantenendo posizioni errate, eseguendo movimenti repentini oppure ripetuti nel tempo questo muscolo si contragga in modo anomalo e provochi una compressione del nervo sciatico provocandone l’infiammazione. Le lesioni da eccessivo utilizzo all’origine della sindrome del piriforme possono derivare da attività svolte in posizione seduta che prevedono l’utilizzo intenso delle gambe, come il canottaggio o il ciclismo. La sindrome del piriforme può anche essere causata da un’eccessiva pronazione del piede, dove il muscolo piriforme si contrae ripetutamente ad ogni passo, per un meccanismo di compensazione, causando dolore alle natiche e occasionalmente sciatalgia.
Il risultato dello spasmo del muscolo piriforme può interessare non solo il nervo sciatico, ma anche il nervo pudendo, che controlla i muscoli dei visceri e della vescica. I sintomi di intrappolamento del nervo pudendo includono intorpidimento e formicolio nella zona inguinale e, nei casi più gravi, possono arrivare all’incontinenza urinaria e fecale.

Non esiste un test immediato per formulare una diagnosi. La condizione viene definita principalmente sulla base dei sintomi che il paziente manifesta, sull’esame obiettivo, sulla revisione della storia clinica del paziente dopo l’esclusione di altre possibili cause. Il criterio più importante per la diagnosi dovrebbe essere l’esclusione, attraverso esami diagnostici, della sciatica risultante dalla compressione/irritazione delle radici dei nervi spinali, in quanto, invece, la sindrome del piriforme, non comporta l’erniazione dei dischi.
Anche problematiche di tipo posturale come una iperlordosi lombare o anomalie muscolari con ipertrofia possono innescare il meccanismo di contrazione del piriforme così come una eccessiva tensione del pavimento pelvico; alterazioni congenite della morfologia del piriforme o del nervo sciatico; presenza di dismetria (differenza di lunghezza) negli arti inferiori; mobilità non corretta delle ossa iliache e dell’osso sacro; iniezioni intramuscolari nel gluteo.

La terapia è sintomatica e mirata alla riduzione dello spasmo del muscolo piriforme in risposta ad un evento traumatico o a sforzi eccessivi o ripetuti nel tempo. In fase acuta è necessaria sicuramente la riduzione temporanea dell’attività fisica che ha scatenato la sindrome del piriforme insieme ad esercizi di stretching specifici per l’anca posteriore e per il piriforme stesso.
L’azione dell’osteopata è volta a eliminare le cause all’origine dello squilibrio posturale e più direttamente la condizione di tensione o spasmo del muscolo piriforme. Un corretto inquadramento diagnostico e terapeutico della problematica ha, nella stragrande maggioranza dei casi, una buona prognosi e si risolve tranquillamente in poche sedute di osteopatia. Infatti, ad eccezione dei casi più gravi in cui sono associate cause di carattere medico, non si rende necessario l’utilizzo di farmaci o terapie particolari. Durante la seduta l’osteopata si occupa non solo di sciogliere le tensioni accumulate nel muscolo piriforme, ma lavorerà anche per evitare che la sindrome si ripresenti verificando che non si siano create delle restrizioni di mobilità a livello del bacino, della gamba e della colonna vertebrale. In questo caso attraverso manipolazioni e mobilizzazioni di queste strutture ristabilirà la corretta mobilità utilizzando altresì manipolazioni miofasciali per trattare direttamente il muscolo piriforme e decontratturarlo.

Mandibola e pavimento pelvico: “l’intima connessione” che non conoscevi!

In questo caso il detto “separati alla nascita” calza a pennello!
Infatti bocca e perineo condividono la stessa origine embrionale poiché entrambi derivano dallo stesso foglietto cellulare il quale poi, durante lo sviluppo, origina entità distinte ma profondamente ed intimamente connesse nell’individuo adulto.

Anche i movimenti della mandibola e del coccige pertanto risultano in connessione attraverso la catena retta anteriore (CRA) costituita da muscoli e ossa che lavorano in sinergia e sono coinvolti in diversi schemi motori come ad esempio i movimenti di flessione ed estensione.
L’osso ioide (che si trova alla radice della lingua), la mascella inferiore, lo sterno, il pube e il sacro insieme ai muscoli retti dell’addome ed ai muscoli perineali costituiscono la CRA; anche il piano profondo del perineo, chiamato diaframma pelvico, si trova in relazione con il diaframma respiratorio attraverso il peritoneo, quindi i due diaframmi possono contrarsi e rilassarsi influenzandosi l’un l’altro.

Sia la CRA che i diaframmi pelvico e diaframmatico sono collegati al sistema neurovegetativo che agisce a livello involontario e viscerale. Infatti, molti movimenti di queste parti del corpo non sono coscienti, ma strettamente legati alle nostre emozioni: la paura e lo stress ad esempio possono serrare la mandibola e, conseguentemente anche se inconsciamente, generare anche la contrazione dei muscoli del perineo. Al contrario se ridiamo, cantiamo o vocalizziamo, rilassando la mandibola, i nostri muscoli pelvici si rilassano. Mandibola e coccige si muovono sempre in sintonia nella stessa direzione: se muoviamo la mandibola in avanti, il coccige si muove in avanti, viceversa, se porto la mandibola indietro, il coccige andrà indietro.

La postura della mandibola e del coccige influenza in maniera determinante quella del bacino e quindi di conseguenza quella della spina dorsale ed è per questo che alcune disfunzioni masticatorie trascurate possono, a lungo andare, compromettere il benessere del pavimento pelvico e del bacino.
L’ipertono muscolo-perineale è una condizione patologica in cui la muscolatura del pavimento pelvico è costantemente contratta fino a sviluppare contratture muscolari o retrazioni muscolari. In questi casi ad esempio, si osserverà una tendenza a serrare la mandibola, a digrignare i denti, a contrarre la muscolatura facciale e ad irrigidire la lingua all’interno del palato accompagnata da una postura rigida con iper-estensione del capo e contrattura a livello scapolare.

Ora è facile comprendere quindi come, un blocco anche solo in uno di questi distretti, si riverberi sull’intera catena generando disturbi localizzati lontano dalla zona di origine; ciò che non è facile comprendere invece, è dove il blocco abbia inizio e quali concause lo abbiano scatenato, proprio perché spesso, nonostante una buona consapevolezza corporea, i meccanismi agiscono a livello inconscio.

L’osservazione attenta da parte dell’osteopata deve avvenire al primo approccio con la paziente: la postura, il viso e l’espressione, permettono di individuare possibili disagi pelvici ancor prima di procedere con la valutazione ed il trattamento della zona pelvica. Il trattamento osteopatico sarà mirato all’individuazione delle problematiche coinvolte e potrà essere multidisciplinare coinvolgendo anche altri professionisti in modo da affrontare il disturbo in maniera integrata. Potranno essere consigliate alcune discipline corporee e di respirazione che indirettamente portano benefici al pavimento pelvico agendo sui distretti collegati al perineo.

Il corpo reagisce sempre in modo globale ed olistico ed per questo che senza comprendere il “tutto” non è possibile curare una singola “parte”.

“Una cicatrice è per sempre”, ma col trattamento manipolativo osteopatico non costituisce un problema!

Forse non tutti sanno che la pelle rappresenta l’organo più esteso del corpo umano: la sua estensione è di circa 2mq!!! Sebbene la sua funzione principale riguardi la protezione dei tessuti e degli organi sottostanti la pelle, in considerazione del suo ruolo di mediatore tra l’organismo ed il mondo esterno, è anche deputata a molte altre funzioni importanti per l’omeostasi dell’organismo come l’escrezione, l’assorbimento, la regolazione termica nonché la sensibilità agli stimoli.
È facile capire che ogni alterazione abbastanza profonda all’integrità della pelle, che noi definiamo col termine “cicatrice”, diventa pertanto sorgente di sintomi che non sono semplicemente superficiali e cutanei, ma dal punto di vista osteopatico possono essere determinanti nella comparsa di diverse problematiche viscerali, posturali e somatiche.
Quasi tutti possediamo una cicatrice recente o remota, grande o piccola: essa rappresenta il risultato finale del processo di riparazione tissutale a seguito di un fattore scatenante, come un intervento chirurgico, un parto cesareo, un incidente o una ferita. Tuttavia, il tessuto fibroso che costituisce la cicatrice è anelastico e rigido e durante il processo della rigenerazione dei tessuti, le aree cicatriziali possono estendersi oltre la zona danneggiata collegando altre parti in modo innaturale e creando le così dette “aderenze”. Si possono così creare facilmente nodi e blocchi sui piani fasciali e muscolari che danneggiano la naturale elasticità e flessibilità dei tessuti, originando trazioni (talvolta dolorose) sulla fascia superficiale ed anche a livello profondo influenzando anche mobilità e postura e provocando dolore e disabilità. Questi cambiamenti strutturali, oltre a causare dolore, effetto nervoso, intorpidimento, gamma limitata di movimento e flessibilità, squilibrio posturale, indebolimento muscolare e deperimento, riduzione dell’ossigenazione tissutale, possono anche comportarsi come un sbarramento che perturba il drenaggio linfatico, circolatorio ed energetico impattando sulla nostra normale fisiologia e sulla nostra salute più in generale. Queste restrizioni non riguardano solo l’articolazione, l’arto o l’area circostante la cicatrice, ma possono anche influire sugli organi sottostanti poichè il tessuto cicatriziale potenzialmente può diffondersi in qualsiasi direzione, anche internamente, in tutto il corpo con conseguente modelli di compensazione.
Infine, spesso le cicatrici vengono associate anche ad una serie di disagi legati alla sfera psicologica poiché, oltre a lasciare una traccia fisica e corporale, mantengono in sé la storia dell’evento che le ha originate e ciò si ripercuote quindi anche sulla sfera emotiva.
La guarigione di una cicatrice può essere classificata in 3 fasi: infiammatoria della durata di 3-4 giorni, riparativa proliferativa per le tre settimane successive, e fase di maturazione che può durare fino a uno o due anni. Durante il processo di guarigione della ferita, entrano in gioco numerosi fattori che influenzano la velocità e la qualità della riparazione della lesione. Tuttavia, l’osteopata può intervenire rimediando a queste problematiche.
Di fronte a una cicatrice di importante dimensione, l’osteopata prenderà in considerazione inizialmente la postura del soggetto, effettuerà semplici test per verificare la mobilità viscerale e articolare e infine applicherà tecniche manipolative di allungamento trasversale e longitudinale del tessuto connettivo a livello della fascia superficiale. Queste manipolazioni non solo aiutano a ridurre il dolore, ma mirano a riportare i tessuti molli in uno stato più funzionale rilassando, ammorbidendo e migliorando la cicatrice, apportando non solo miglioramenti a livello fisico ma aiutando anche a livello psicologico. Pertanto il trattamento osteopatico non riguarderà solo l’area del dolore, ma valuterà anche la funzione generale del corpo e analizzerà la storia e le cause che contribuiscono ai sintomi che si stanno verificando.
È importante sottolineare infine, che l’osteopata può trattare la cicatrice quando essa ha già generato un problema, un dolore ad essa collegato, ma anche e soprattutto al fine di prevenire l’insorgere di queste complicanze.

Trattamento osteopatico per l’Intestino, il nostro “secondo cervello”

La connessione tra cervello e intestino è un argomento del quale si parla da molto tempo nelle terapie alternative e questa sinergia è sempre più oggetto di studio anche a livello scientifico.
Studi recenti hanno dimostrato che l’intestino è deputato a molto di più che a digerire il cibo che ingeriamo; esso contiene milioni di cellule e fibre neuronali che costituiscono un vero e proprio sistema nervoso autonomo. Esso è in grado d’integrare ed elaborare stimoli esterni e interni ricevuti dal corpo, interagendo con il sistema nervoso centrale attraverso uno scambio di informazioni mediato dal sistema psico-neuro-immuno-endocrino (rilascio di ormoni, nervo vago, sistema immunitario). Ciò significa che i due “cervelli” si influenzano reciprocamente, determinando il nostro stato di benessere psico-fisico.

Condizioni di forte stress emotivo, associate ad una dieta non equilibrata ed ad una vita sedentaria, possono attivare i circuiti dell’ansia e della paura o alterare il microbiota intestinale, irritando la mucosa intestinale che, nei casi più gravi, può generare patologie o condizioni anche severe come la sindrome del colon irritabile (IBS) oppure la malattia infiammatoria intestinale.

“La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è una malattia gastrointestinale cronica ricorrente con sintomi e caratteristiche variabili che vanno dal dolore addominale a problematiche più serie associate a cambiamenti nelle abitudini intestinali. Circa il 10% della popolazione è affetta da IBS e quasi 200 persone su 100.000 ricevono una diagnosi iniziale di IBS ogni anno….
Questa disfunzione sensomotoria gastrointestinale può causare una deregolamentazione nell’asse cervello-intestino, che è la regione di elaborazione neurale tra intestino e cervello. La frequenza e l’intensità dei sintomi determinano la terapia medica, che comprende la riduzione del lattosio, integrazione di fibre e agenti di carica, lassativi, antispastici, antibiotici, antidepressivi, interventi psicologici. Tuttavia, l’efficacia di queste terapie varia da studio a studio e le prove dell’efficacia di queste terapie sono deboli. Alla luce della mancanza di farmaci affidabili ed efficaci per la gestione dell’IBS, c’è un crescente interesse per forme di terapie complementari e alternative”
(fonte: http://www.osteopatianews.net/intestinoirritabile/)

Quando il nostro organismo, inteso in questo senso come “insieme” corpo-mente, perde il suo equilibrio non sempre, nei casi più critici, possono bastare una sana dieta e l’allentamento delle tensioni quotidiane: in questo caso il trattamento osteopatico, attraverso la manipolazione viscerale, può essere un valido aiuto e sostegno.
I visceri infatti, scambiano costantemente informazioni con il sistema muscolo-scheletrico, cranio-sacrale, neuroendocrino ed emozionale, pertanto non è possibile isolare la funzionalità di un organo rispetto a quella della struttura a cui si lega (osso, legamento…) e da cui è contenuto, rispetto a un vaso sanguigno che lo nutre e ossigena o ad un nervo che lo mantiene in funzione. Il trattamento osteopatico degli organi addominali aiuta a normalizzare il flusso ematico, il fluido linfatico e l’equilibrio del sistema nervoso autonomo, e mira a ripristinare la normale motilità ed elasticità dei visceri o delle strutture peritoneali intorno ai visceri.
Il ruolo dell’osteopata può quindi garantire questo equilibrio in modo tale da mantenere una buona funzione e vitalità di tutte le componenti nel loro insieme e favorire l’omeostasi del paziente, ovvero il suo equilibrio interno che sottende alla salute.
Per quanto riguarda invece la parte più emozionale, quella relativa alla cura del costituiscono un valido sostegno pratiche di rilassamento e manipolazioni dolci come lo Shiatsu, antica disciplina giapponese di prevenzione e salutogenesi